La visione eco-psico-sociale di un fenomeno presuppone di considerarlo come la risultante dell’interazione di condizioni e fattori di varia natura, ma in questa sede, per economia di spazio, delle due principali dimensioni secondo cui si suole considerare il fenomeno droga, mi occuperò soltanto di alcuni fattori in rapporto alla domanda, vale a dire non dell’aspetto traffico mercantile (offerta), ma di quella condizione propria del soggetto che lo porta a usare e abusare (domanda) di sostanze drogastiche.
In effetti, il fenomeno droga costituisce la risultante dell’incontro (della corrispondenza) tra le suddette condizioni che sottendono la domanda ed esosi interessi di mercato.
La connotazione fondamentale e propria dello stesso fenomeno è la dipendenza. Questa, a sua volta, rappresenta un prolungamento morboso della condizione di dipendenza naturale dalla madre durante i primi tempi di vita.
Tale condizione di base, che si origina da deficit e traumi evolutivi della personalità, porta chi ne soffre, non solo ad assumere le droghe propriamente dette, ma a instaurare rapporti di dipendenza abnorme perfino con altre persone: dai figli come pure dal coniuge.
Preciso che la mia finalità prevalente è ancora una volta quella della prevenzione.
Certamente, nel riaffrontare questo argomento mi devo porre la questione se valga la pena di scrivere ancora su questo fenomeno su cui ormai da diversi anni si animano innumerevoli dibattiti, si pubblicano numerosi libri e articoli su rotocalchi, quotidiani e periodici. In altre parole, rimane da dire ancora qualcosa di nuovo?
In effetti, sto per riprendere quanto io stesso scrissi su un’esperienza personale didattica già pubblicata sul periodico “L’Intervista Medica” del maggio 1985, per offrire alcune considerazioni a un pubblico diverso da quello medico e per riproporre un aspetto genetico dello stesso fenomeno.
Dò la precedenza a quest’ultimo aspetto sul quale apparve un articolo dal titolo: I Giovani, il Sesso e l’AIDS, sulll’inserto “Un Sorriso per la Vita” nel periodico Il Corriere di Roma del dicembre 1987, ripubblicato sull’8/a ediz. Del Premio Giornalistico, Federico Motta Editore.
In questa sede l’AIDS viene considerata come una tappa terminale di un iter che inizia dalle carenze affettive nei primi tempi di vita e che, secondo una tesi condivisa dagli autori (R. Bani, P. L. Lando e P. Poli), dà luogo a una condizione umorale dell’organismo caratterizzata da carenza di quelle sostanze comunemente note come ormoni del piacere e della salute e, per gli addetti, sono costituite prevalentemente dalle endorfine.
In base al fatto che la carenza di queste sostanze oppioidi, vale a dire molto simili all’oppio (morfina), fisiologicamente secrete e presenti nei tessuti e circolanti nel sangue di tutti noi, provoca una specie di fame permanente di tali sostanze, si rileva che quando, sia pure accidentalmente, un tale soggetto venga ad assumerle dall’esterno, è come se l’organismo scoprisse l’essenza dei suoi più impellenti bisogni, smettendo di secernere quel tanto di endorfine che sino ad allora era riuscito a produrre da sé. Si genera così quella condizione fondamentale per la determinazione del fenomeno droga costituita dalla dipendenza e dall’assuefazione che, a sua volta, si basa su un’altra condizione patologica che da una cinquantina d’anni è stata resa nota agli studiosi di tutto il mondo da un esperto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità John Bowbly: la cachessia infantile da carenze di cure materne.
Egli attribuì alcune condizioni, peraltro salutari (per quanto concerneva in particolare le condizioni igieniche e l’alimentazione), osservate da pediatri i quali avevano notato che bambini, specialmente quelli allevati in brefotrofio, comunque in assenza di cure materne, andavano incontro a gravissimi stati di denutrizione (cachessia) sino a morirne. Alla luce delle conoscenze attuali riguardo al fatto che la secrezione degli ormoni del piacere e della salute viene stimolata dalle sensazioni gradevoli, quali il contatto con il corpo materno specialmente durante l’allattamento, si può ritenere che le cure parentali e tutte le stimolazioni piacevoli godute sin dai primi tempi di vita stiano alla base del benessere fisico e psichico, giacché le endorfine entrano in gioco sia per quanto riguarda il sistema immunitario sia per l’eutrofismo (la condizione di nutrizione ottimale) sia per il tono dell’umore, mentre la carenza di tali esperienze daranno luogo alle rispettive patologie. Insomma, la droga sembra costituire la tappa intermedia e l’AIDS l’ultima tappa della patologia del piacere.
Dal momento che, come per buona parte dei fenomeni, anche per questo la sua dinamica è multifattoriale (risultante di un processo in cui entra in gioco una complessa interazione di condizioni e fattori), prima di passare all’esperienza didattica proposta in premessa, accenno soltanto a uno degli aspetti fondamentali e più noti della predisposizione a drogarsi, qual è quella dell’apprendimento che di solito si acquisisce nell’ambiente familiare e cioè che, per ogni stato di disagio, vi sia una sostanza chimica (dal caffè all’alcool e al fumo) in grado di alleviarlo.
Un altro cenno merita il fatto che le componenti di dipendenza e di assuefazione sono spesso appannaggio dei rapporti genitori/figli e che la ricerca del figlio a ogni costo porta spesso a termini linguistici comunemente adottati anche per il traffico della droga. In proposito riporto il distico posto all’inizio del quarto capitolo dell’"Introduzione all’Ecologia Psico-sociale" (A. Armando, Roma, 1976) : “Una condizione di dipendenza, come quella che si può instaurare tra genitori e figli e che non lasci spazio all’autonomia, può risultare altrettanto nefasta quanto l’assuefazione alle droghe pesanti”.
Un altro aspetto dei tanti che caratterizzano il fenomeno droga è emerso durante alcuni incontri con allievi di terza media del suburbio romano.
Ero stato richiesto di parlare di droga a questi studenti a fini preventivi: nessuno di loro era caduto nella trappola della droga. Consapevole o forse in base a un mio pregiudizio (ma qualcuno non ha affermato che a pensar male si fa peccato, ma a volte si indovina?) che i ragazzi fossero predisposti a una reazione di rigetto nei confronti degli adulti in base al (loro) pregiudizio che gli si volesse parlare per il loro bene, per salvaguardarli da qualche pericolo, facendo delle prediche noiose, rinunciai a operatori della scuola propostimi per mantenere la disciplina.
Per qualche tempo lasciai gli studenti in balia di una specie di brain storming e al momento che mi sembrò più opportuno li posi di fronte alla scelta della prosecuzione delle loro interazioni caratterizzate da reciproci sfottò oppure se intendessero esprimere un loro parere sull’argomento su cui ero stato invitato a parlare.
Gradualmente li indussi a parlare sempre più di sé stessi anche al di furoi del problema della droga, richiamando la loro attenzione che, mediante lo sfottò, ciascuno di loro costringeva l’altro a difendersi dietro una specie di maschera sociale, nascondendosi come persona e non comunicando neanche con i coetanei, oltre che con i genitori e i familiari. Il coinvolgimento emotivo procedette di pari passo con la loro attenzione. Richiamai quindi la loro attenzione sul fatto che il ricorso alla droga faceva cadere la stessa maschera, mettendo a nudo la propria, spesso miserevole condizione umana. Li colpì molto la domanda esclamata quasi contemporaneamente da una ragazza e dal suo vicino con il quale aveva parlottatto sino allora: “ Ma perché dover ricorrere alla droga per comunicare come persone autentiche… non ci sarebbe un altro modo per farlo prima e invece…?”. Suggerii a tutti di provare a chiedere a un compagno se fosse disposto a cambiare modo di comunicare, eventualmente per chi non si sentiva di farlo in quel momento e in aula, mediante un bigliettino. Purtroppo, si era alla fine dell’anno scolastico e non so come un tale “gioco” sia andato a finire.
Dopo oltre una dozzina d’anni, mi rimane ancora l’immagine della fila di questi ragazzi, spesso fisicamente ben sviluppati i quali, alla fine dell’incontro, ciascuno di loro mi chiedeva un breve colloquio a tu per tu per pormi una domanda, per espormi un proprio problema.
Oggi l’escalation nella invenzione e messa in commercio di nuove sostanze drogastiche, da parte di astuti spacciatori che sanno come sia necessario aumentare il rischio perché i giovani abbocchino, pone problemi che sono sotto gli occhi di tutti ed è chiaro ormai che l’informazione terroristica sui loro effetti dannosi ha sui giovani, per la loro particolare condizione psicologica, un irresistibile appeal come quello delle falene per la fiammella di un lume. In proposito mi viene in mente che, dopo pochi mesi dall’uscita del mio primo libro ("Introduzione all’ecologia psico-sociale - per una nuova scienza della personalità e dei rapporti", 1976 -, venne a trovarmi un giornalista della RAI che lo aveva letto. Nell’accomiatarsi, mi rilevò che io affrontavo i problemi da troppo alla lontana e che non si poteva aspettare oltre per risolvere il problema della droga. Io, allora, gli risposi che ne avremmo riparlato ancora fra dieci anni.
Dopo dieci anni, in veste di funzionario responsabile di un servizio attinente alle tossicodipendenze, dovetti constatare che la situazione era molto peggiorata: tra l’altro, soltanto per circa il 5% dei tossicodipendenti vi era possibilità di accoglienza in comunità terapeutiche e, ovviamente, questa opportunità non costituiva una garanzia per tutti di venir fuori dal tunnel.
Ho riportato questo episodio per sottolineare ancora una volta che la tendenza a ricorrere a espedienti di emergenza con la speranza di tamponare sbrigativamente problemi che hanno radici ben più profonde finisce per aggravarli e cronicizzarli.
Anche se è umanamente comprensibile che la drammaticità degli effetti devastanti prodotti da sostanze insidiosamente tossiche e che si presentano allettanti per tanti giovani ci angoscia al punto che desidereremmo una soluzione immediata, si dovrebbe almeno convenire che la doverosa operatività a breve termine (di pronto soccorso e di recupero) vada affiancata da quella, molto più a lungo termine che sia in sintonia con la natura del problema e che sottende la domanda.
In definitiva la più consistente garanzia contro ogni tendenza tossicofila coincide con lo sviluppo armonico della personalità.
L’ecologia psico-sociale si occupa di questa tematica, facendo tesoro di conoscenze attinte da aree del sapere che vanno dall’ecologia fisico-naturale alle varie discipline delle scienze umane.